lunedì 5 dicembre 2022

Un tempo...

Un tempo nuvole e fantasia erano un tutt'uno.
Avanzavano di pari passo sospinte dal vento.
Un asinello sapeva trasformarsi in aquilone in pochi attimi, e questi volar via nel cielo azzurro senza nessuno a sorreggerlo o guidarlo con un filo. Soltanto il suono delle risate di noi bambini si librava nell'aria assieme a lui ad accompagnarlo nel suo tragitto.
La risata di un bambino è una stupenda melodia, non ci troverai mai note stridenti a rovinarne il componimento. È una partitura linda e armoniosa, un capolavoro impeccabile.
Un tempo potevi sentirle ovunque, le strade ne erano pregne del loro fragore, nei giardini i fiori parevano nutrirsi della loro vivace energia. Le farfalle ci andavano a nozze.
Un paesino com'era il mio sapeva far risaltare tutti questi piccoli eventi, non ti ponevi problemi se apprezzarli o meno, ci vivevi e basta. Ed era un bellissimo viverci.
La piazza centrale, all'ombra del secolare olmo, era meta d'incontro dei vecchi un po' ricurvi nei loro bastoni che sembrava scegliessero con cura il posto dove sedersi. Bramosi di chiacchiere a volte allegre altre seriose, passavano ore a discutere del più e del meno, i più loquaci risultavano essere sempre i primi ad alzare i toni ogni qualvolta il discorso prendeva una piega un tantino nodosa, mentre quelli un po' laconici si limitavano ad annuire in modo sardonico ai loro pensieri senza troppi coinvolgimenti.
Un tempo persino la campagna era ridente, sapeva ricambiarti del duro lavoro che svolgevi.
I pettirossi impavidi si avvicinavano all'indefesso vomere che pigramente rivoltava la terra, al più lesto spettava il lombrico più appetitoso. Le ballerine bianche più prudenti, si tenevano indietro accontentandosi di ciò che avanzava ma sempre appagate del loro frugale pasto.
Il raccolto soddisfaceva i contadini, raramente si sentivano lamentele. Chi subiva in qualche maniera una perdita veniva aiutato da coloro che erano stati più fortunati, nessuno mai ci perdeva.  Il sole riluceva il sudore che imperlava le loro fronti nelle afose e dure giornate, le mani segnate dal duro lavoro non rinunciavano ad elargire carezze alle mogli che al tramonto li accoglievano liete con la tavola già imbandita.
I giovani baldanzosi coi loro motorini correvano dietro le ragazze che a loro volta, con fare avveduto cercavano di non cadere in riprovevoli comportamenti. Persino semplici parole travisate se sfuggite e gonfiate tali da giungere alle orecchie dei genitori potevano risultare assai fatali. Colui che è di bocca larga sa operare con maestria nel seminar zizzania.
Un tempo il mondo era più semplice, si faticava ma ci si adeguava con serenità.
Qualcos'altro oggi ha preso il posto delle nuvole, scie capaci di tramutarsi solamente in tristi e monotone immense piume.
Chissà che fine avrà fatto quella fantasia che ora nessuno cerca più?
Le risate nelle strade son diventate più riservate. I bambini molto più competenti nella nuova era digitale, ricalcano le posture dei vecchi, chini sui loro smartphone, a navigare in un oceano di informazioni. Gibboso si prospetta l'avvenire dell'umanità.
La campagna piange il suo star male, veleni su veleni a lenirne la sofferenza, ma è come spegnere un fuoco con la benzina. I raccolti son poveri e il clima non aiuta, ogni anno è sempre un'incognita. I giovani ai campi da coltivare preferiscono cercare lavoro altrove.
Persino il canto del pettirosso sta diventando un lontano ricordo.
L'ombra dell'antico olmo non la cerca più nessuno; solitario e maestoso si erge al centro del paese in attesa ancora di quei vecchi discorsi fecondi di animate discussioni. La tv ormai si è arrogata il diritto dello svago, rintanando nelle proprie dimore quelle menti ammaliate dalle sfavillanti immagini illusorie.
Questo è il nostro tempo, alzo lo sguardo lassù in alto, cerco quell'azzurro di allora ma vedo solo un colore ormai sbiadito dai fumi, a stento riesco a scorgere la luna dietro quel cielo a scacchi.

venerdì 22 aprile 2022

Madri

  Potrei anche risponderle a tono, ma preferisco non farlo. Sarebbe peggio che sopportare. Mi limito a spingere per quanto mi riesce e basta. Non capisco se sono io che ho poca forza o sono le rotelle di questo aggeggio che sono dure da far girare. Uno strano attrezzo, un po' ingombrante ma almeno mi aiuta a tenermi in piedi anche se a stento. Si fatica molto lo stesso ma non quanto sentire la voce di mia figlia che sale sempre più di tono. Sono un po' dura d'orecchi, un altro regalino dell'età che avanza sempre più, forse sta di pari passo con queste rotelline che nei miei pensieri cigolano pure. In realtà la sento, sono le parole che non mi arrivano molto chiare, è come ascoltare un nido di calabroni, si confondono nel vuoto, si deformano come i suoni dentro la chiesa vuota, la stessa di cui ho smesso di frequentare tempo fa. 

 Ultimamente non ha molta pazienza, i suoi modi diventano sempre più bruschi e la rabbia riesce a prendere il sopravvento. Posso capirla, non è facile starmi dietro. Prendersi cura di una vecchia non è mai semplice, ci sono passata anch'io con mia sorella maggiore, badare a lei è sempre stato un vero tormento per entrambe.

 Ora tocca a me, ho mia figlia che mi aiuta. O almeno ci prova, con tutta la sua buona volontà. Siamo arrivate all'ultima fase, quella in cui è lei ad urlare alla madre. Non lo fa per cattiveria, è solo la stanchezza che prende il comando.

 Oggi è una bella giornata, si sta bene al tepore del sole primaverile. Giriamo attorno alla casa sul piastrellato, nel giardino non si può, questo arnese è possibile portarlo solo sul pavimento liscio. È duro da spingere e mia figlia quando sente che sforzo troppo mi dà una mano tirando verso di lei avanti a me. Per quanto mi riguarda uscire è uno svago che mi fa bene, restare rintanata in casa è una vera tortura, le ore sembrano non passare mai. Per la mia balia invece è diverso, è una cosa stressante, forse è quando si occupa di me che per lei le ore sono infinite. 

 Ogni tanto tocco le cose che mi capitano a tiro, tipo i davanzali delle finestre, il grande cassettone pieno di vasi fioriti, il pilastro di mattoni, tanto per sentirne il contatto, ma la mia mano viene presa con forza e rimessa sui manubri in modo arrogante, forse temendo che possa cadere o magari pensando che mi stia appoggiando mi rimbrotta bruscamente. Capita che mi saltino i nervi e mi oppongo con fare di rimprovero, ma è una lotta impari, non sono più io a dare ordini. 

 La cosa peggiore sono le parole, se le chiedo di ripetere perché non percepisco ciò che dice allora il tono comincia a salire, la seconda volta si intuisce che essendo dura lottare ogni giorno pure per farsi capire, la pazienza la abbandona proprio, come se per lei fosse una cosa assurda che io non riesca a sentirla. La terza volta è meglio evitarla, alla terza la sento e capisco benissimo, ma oltre alle parole c'è sempre qualcosa in più che mi arriva, la rabbia è una tra queste.

 Non manca mai il da farsi quando ci si occupa di una vecchia; aiutarla ad alzarsi la mattina, pulirla, vestirla, occuparsi dei pasti, delle medicine giuste da prendere, tutte cose che richiedono tanta pazienza e perseveranza. Con mia figlia cerchiamo entrambe di venirci incontro per quanto ci è possibile, ma il più delle volte si finisce con battibecchi e malumori. 

 Le guardo il viso ogni tanto, di sfuggita quando lei non se ne accorge. Preferisco evitare che il luccichio dei miei occhi incontrino i suoi, non sarebbe giusto nei propri riguardi, prendersi la colpa per ciò che sento, per i miei dolori, non se lo merita. 

 Non è cambiata molto, ha gli stessi tratti di quand'era piccola. È solo il tempo che ci dipinge sopra qualcosa in più, ma l'abbozzo resta sempre quello, i lineamenti di una bambina. 

 Della mia bambina.

 Mi sembra ieri che la tenevo ancora in braccio, un visetto paffuto che sembrava dire “riempimi di baci”. Ed è quello che facevo, la stringevo e la baciavo in continuazione come se non esistesse nient'altro di più bello nella vita. 

 Si andava avanti così negli anni a venire, fino al suo ultimo periodo di asilo. Poi qualcosa è cambiato.  Dopo è iniziata la scuola. È lì che tutto si trasforma, tutto si altera. 

 Lo studio, i compagni, gli insegnanti, la pubertà, tutte cose che ci piombano addosso all'unisono, una valanga che ci travolge spietatamente. 

 È lì che finiscono gli abbracci. É lì che i baci si perdono nei ricordi. 

 Quanto vorrei tornare indietro per poter sfiorare quelle guance con le mie labbra solo per un'ultima volta. Quanto vorrei riavere indietro la mia bambina. 

 Ora ho solo rimpianti e la mia stupidità. 

 Cambierei tutto, non ci penserei due volte a farlo se potessi. 

 La scuola è dura, bisogna impegnarsi molto, ed avere a che fare con degli insegnanti privi di cuore non è mai facile. Maledetti! Ma chi vi credete di essere? Come potete intromettervi nell'affetto tra genitori e figli? Quelle che avete davanti sono delle personcine, non animali da ammaestrare. Avete delle responsabilità nei loro riguardi, sono esseri umani e non oggetti da etichettare con dei voti o dei numeri. A scuola bisogna andarci con sicurezza, audacia e certezza, non con timore o il più delle volte col terrore come può provarlo solamente un bambino.

 È assurdo, è tutto così assurdo! 

 Abbiamo sbagliato tutti, compresa me stessa. 

 Al suo ritorno mi ci mettevo pure io a darle addosso senza un attimo di tregua. La incalzavo sullo studio, sul fare i compiti ed impegnarsi molto senza mai una parolina di conforto. Solo raccomandazioni, spinte su spinte per migliorarsi. 

 E lei cambiava. Giorno dopo giorno diventava sempre più dura, sempre più inflessibile nel suo riserbo e nei suoi silenzi. Cambiava e nemmeno mi rendevo conto di cosa le stavo facendo. Sempre più rimproveri e sempre meno sorrisi. Che stupida sono stata, non ho mai saputo ascoltare quei silenzi, sono sorda da una vita e non me ne sono mai resa conto. Rinunciavo all'affetto solo per incitarla nello studio di certe materie che nemmeno le sarebbero servite mai nella vita ma che reputavo rilevanti per il suo avvenire; sul pulire casa, lavare i piatti e altre cose senza importanza. Barattare l'amore per delle cose futili non è mai un buon affare. 

  Mi bastava semplicemente abbracciarla e baciarla augurandole una buona e serena giornata prima di andare a scuola e fare lo stesso al suo ritorno. Tutto qua. Sarebbe stato sufficiente fare questo ogni santo giorno e ne saremo state appagate entrambe. Una piccola oasi nel caos della vita. Un sospiro di sollievo in questo lungo cammino insidioso, un cammino che ci costringiamo ad intraprendere tutto in salita senza nessuna logica. 

 E si andava avanti così fino alle medie, con l'adolescenza che si portava dietro tutti i suoi problemi e i suoi trambusti a peggiorare le cose. È stata una fase terribile, solo ora me ne rendo conto, l'abbiamo attraversata nel peggior modo possibile. A stento le usciva un “ciao” ogni volta che usciva o rientrava, figuriamoci i discorsi; sembravamo delle perfette sconosciute. Non capisco perché certe cose si riescano a vedere solo col senno di poi. 

 Dopo, con le superiori le cose non sono certo andate diversamente, siamo rimaste coerenti fino in fondo nelle nostre personali solitudini, perse nella nostra monotona quotidianità. Ripensando al passato non vedo altro che pura follia, non potrà mai esserci nient'altro di più orribile del mio fallimento come madre. 

  Finché un giorno ha lasciato il nido e si è fatta una vita propria.

 Ora anche lei ha una figlia con due fratelli. Ormai sono grandi ed ognuno di loro ha preso la propria strada. I maschi non li vediamo molto spesso, ma la figlia viene a trovarci ogni tanto per passare qualche domenica assieme a noi. Le osservo attentamente quando parlano tra loro, discorsi lunghi, a volte importanti altre volte semplici pettegolezzi tra donne, ma i sorrisi sempre meno frequenti, troppe volte assenti. Le visite sono alla lunga diventate solamente un obbligo, dei compiti che ci si sente in dovere di svolgere. È una cosa triste, una scena che sembra ripetersi da milioni di anni. Vorrei fare qualcosa, dire loro che non è questo il modo, ma come potrei? Con quale faccia poi? Da che pulpito arriverebbe la predica? Sembrerei solo un ipocrita. 

 Dio, mi auguro che questo non accada in tutte le famiglie, che siano solo dei casi a parte come il nostro! Sarebbe terribile. Troppe volte ho visto scene del genere, come la mia vicina di un tempo, dove non sentivo altro che urla e rimproveri a tutte le ore del giorno con le proprie figlie. Ora non si parlano più, qualcuna ha persino rotto i contatti del tutto. Ma perché poi? Ma cosa ci succede? Cos'è che ci fa cambiare in questo modo? 

 Tiriamo su i nostri figli come meglio possiamo e molte volte facciamo anche un buon lavoro. Crescono forti, educati, zelanti, ma manca sempre la cosa più importante. Quello di cui noi madri non abbiamo mai capito niente. Dimostrar loro il nostro affetto, fargli capire che su di noi possono contare costantemente nel bene e nel male. Abbracciarli anche quando sbagliano e non solo punirli, aiutarli quando sono in difficoltà e non abbandonarli a se stessi, perché a volte tentare di cavarsela da soli non sempre porta a dei buoni risultati. 

 No, decisamente sull'affetto abbiamo molto su cui lavorare. Bisogna spingere su questo tasto o ci ritroveremo prima o poi col piangerci addosso. 

 Per me ormai è già tardi, l'unica cosa che posso spingere a questo punto è solamente questa specie di trespolo con le rotelline che faticano a girare. Uno stupido e singolare attrezzo che come ho già detto, mi consente ancora di reggermi in piedi.

 La sua voce è alta, le sue parole mi arrivano chiare e comprensibili. Non sono ancora abbastanza sorda per potermi sottrarre ad esse. Tengo la testa bassa con la scusa di concentrarmi sulle mie gambe lentissime a muoversi, la verità è che ho gli occhi intrisi di lacrime e faccio di tutto perché non ne scivoli nessuna sulle guance. 

 Nemmeno riesco più a vederle le gambe!

 Ancora un passo. 

 Ancora un altro piccolo... dolorosissimo... passettino!


sabato 11 luglio 2015

Follia pura

Forse dipenderà dal fatto che a forza di automatizzarci pure noi stiamo diventando delle macchine e che ormai non ci rendiamo più conto di quello che ci capita. 

Dovendo fare un'operazione all'ufficio postale molto importante di cui si richiedono documenti, firma e altre cosette varie, mi reco non con molto entusiasmo presso l'edificio sapendo già che essendo i primi giorni del mese e quindi di pensioni, ci troverò una marea di persone ad affollare la piccola stanzetta cosiddetta “sala d'aspetto”. In realtà somiglia più ad uno sgabuzzino che ad una sala; paese piccolo, ufficio piccolo.
Infatti già in lontananza vedo che dalle Poste la folla strabocca come un fiume in piena. Potessi rimandare lo farei più che volentieri, ma purtroppo tocca fare la fila. Mi informo su chi è l'ultimo arrivato di loro e mi appiccico a lui come una sanguisuga. Fuori saremo quasi una ventina, dentro non oso pensare in quanti siano ammucchiati. Odio questi giorni, se penso che quando non ci sono di mezzo le pensioni gli uffici sono sempre vuoti, mi viene da rosicchiarmi i gomiti.
Qualche oretta è passata, finalmente pure io riesco ad infilarmi nella ressa all'interno, per qualche strano motivo fortunatamente le cose sembrano andare abbastanza velocemente. A differenza da fuori dove le persone parlottano del più e del meno, all'interno nessuno fiata, sembra di trovarsi in chiesa tutti con la testa china a pregare o a sonnecchiare. Ma son cosette passeggere, succede sempre che un ardito dica solamente due parole che tutti quanti come se avessero avuto il consenso per parlare si aggreghino a lui in un vociare incomprensibile. Finisce subito, come una piccola onda che si infrange sulla sabbia, sembri vederla allontanarsi lentamente mentre la sua schiuma sparisce in un lieve fruscio. Ricordo che una volta l'impiegato di turno sentendo il vociare molto forte, urlò contro di loro come se fossero bambini, che non si trovavano al mercato e che bisognava fare silenzio. Probabilmente era di pessimo umore e lo scaricava sulle persone attorno a lui. Naturalmente nessuno osò contraddirlo, non ci si inimica uno di cui poi si ha bisogno.
Una vecchia in vena di fare la furba convince le persone davanti a lei che deve solo pagare un conto corrente, che la pensione l'ha già ritirata due giorni fa e che sarà una cosa velocissima. Infatti lo è velocissima, solamente che poi comincia a chiedere informazioni sul suo conto privato dove costringe l'impiegata a cercare e intrufolarsi tramite computer in chissà quali meandri della rete facendo passare almeno quaranta minuti buoni di attesa di risposte speranzosamente buone. Tra i mormorii delle persone intorno riesco a captare che c'è in corso un progetto di linciaggio per la vecchia, fortunatamente per lei si salva per il rotto della cuffia, ancora qualche minuto e sarebbe stata bella che cotta.
Arriva il mio turno. Consegno i miei papiri alla graziosa impiegata dietro al vetro. L'operazione sembra avviarsi bene senza intoppi.

SEEEEE, COME NO? TI PIACEREBBE!!!!!

Serve il codice fiscale. Nessun problema, lo tiro fuori dal portafogli e glielo consegno.
<< Serve il codice fiscale >> mi fa lei.
Un po' smarrito e sorpreso da ciò che sento, confusamente cerco di nuovo nel portafogli chiedendomi cosa cazzo le abbia consegnato.
No no, le ho dato proprio il codice fiscale, ma allora non capisco che cosa voglia.
<< Questo ormai non è più valido >> dice. << Il cartaceo non è più in vigore. >>
<< Come sarebbe? Il codice però è sempre lo stesso. >>
Sembra non voglia sentire ragioni. Essendo più maneggevole ho sempre preferito portarmi dietro il codice fiscale cartaceo nel portafogli perché quello su tessera probabilmente rischierei di danneggiarlo sedendomici continuamente sopra. Mi riconsegna l'oggetto in questione aspettandosi che le dia quello su tessera, ma io non avendolo con me imperterrito riprovo a rifilarle lo stesso sperando che mi venga incontro e che non faccia quello che orribilmente temo che faccia appunto. Ammucchia tutti i foglietti, documenti e quanto resta e me li infila sotto il vetro annullando tutta l'operazione che sembrava andare a buon fine.
<< Torni col codice fiscale >> gracchia lei.
Ore di fila andate a puttane. Sento esprimere parole di cordoglio verso di me dalle persone che mi circondano mentre a testa china esco sconfitto e sofferente per il tormento subito.
L'indomani solita storia, la consueta fila ma stavolta per fortuna con meno gente.
Siamo di nuovo faccia a faccia, io e lei con uno spesso vetro a separarci. Consegno tutto l'armamentario compreso la tessera del codice fiscale.
Mi guarda strano, la mia faccia diventa un solo punto interrogativo:
<< Che c'è? >>
<< Deve darmi la sua tessera sanitaria, questo codice fiscale è obsoleto. >>
<< Cos'è? >> urlo io non riuscendo ad afferrare bene le sue parole da dietro il vetro ma comprendendo perfettamente che sta per incasinarsi ancora la situazione.
<< Questo non serve più, deve darmi la sua tessera sanitaria. >>
Non ho più parole, non so più nemmeno dove mi trovo. Non riesco a dire niente per non so quale strana reazione della mia mente, confusione, smarrimento, catatonia... vedo rane che volano, treni che danzano la mazurca, la gatta con la zampa di lardo, cresce l'erba che campo cavalla... se questo non è un trip non so proprio che diavolo sia!!!???
Sento la voce dell'impiegata riportarmi alla realtà, dice di andare a casa e di tornare con la tessera sanitaria, dice che mi farà passare senza dover rifare la fila, che poi risolveremo tutto. 
Io vado. Obbedisco e vado. Sì, mi sembra che vada. Vado e torno.

È stata di parola, mi ha fatto saltare la fila senza problemi. L'operazione prosegue perfettamente. Quando prende la mia tessera sanitaria in mano mi viene quasi un colpo aspettandomi chissà quali altri problemi.
Con la sinistra legge la tessera, con la destra digita il codice sulla tastiera, e poi me la riconsegna passandomela da sotto il vetro.
Rimango a bocca aperta, cerco di articolare parola ma tutto quello che ne esce fuori sono solo sillabe incomprensibili.
<< Allah... ajaja... llalla... allalla... >> Comincio a temere che la gente pensi che mi sia convertito alla religione islamica.
Ma... non ci credo, è una cosa assurda. Come può essere?
Insomma, non ha nemmeno fatto finta di strusciare la tessera su qualche macchinario per leggerla in automatico, ha solamente digitato il codice a mano. Cosa che poteva fare benissimo con quello cartaceo. Il codice è sempre quello no? È sempre lo stesso no? Mi sbaglio? Sono in errore? Sto impazzendo?
A cose fatte esco scioccato continuando a biascicare parole senza senso, chiedendomi se tutto questo sia successo veramente oppure sia soltanto frutto della mia mente bacata.
Passi pure che ti cambino il cartaceo con la tessera, ma se poi ti annullano pure quello allora che lo dicano. Perché devono fartelo sapere a cose ormai fatte? È troppo scriverlo su un foglietto e appiccicarlo sulla vetrata dell'ufficio in modo che la gente sia informata su certi cambiamenti?
Cose da pazzi, e questo da quanto ho saputo non è successo solamente a me, altri hanno subito la stessa sorte di dover ritornare il giorno dopo per via del codice fiscale ormai in disuso.
Ma un po' di tolleranza pure da parte degli impiegati no eh? E che cavolo, non siamo macchine che non vedono certe cose. Non penso che siamo arrivati già al punto di “ognuno per sé e arrangiati come puoi”.
C'è rimasta ancora un pochino di umanità dentro di noi?
O siamo ormai perduti?

lunedì 5 gennaio 2015

Volti

Un tempo non conoscevo nessuno di loro.
Volti sconosciuti a fissare perennemente l'obiettivo che hanno immortalato per sempre quegli sguardi da sembrare più smarriti che in posa.
Fotografie in bianco e nero, molte un po' sbiadite dalla continua luce battente del sole delle belle giornate che passano indisturbate, noncuranti di notizie o avvenimenti che all'esterno della struttura sembrano ravvivare il caotico mondo dei vivi.
Era un'epoca in cui non conoscevo nessuno di quei volti. Percorrevo incuriosito ed anche divertito le varie file di tombe osservando quei visi buffi un po' sprezzante come poteva essere un bambino, del dovuto rispetto che si doveva loro riservare, ignorando che pure loro un tempo avevano vissuto una vita, che erano stati qualcuno.
Persone.
Erano state persone come lo ero io. Persone che avevano avuto una famiglia; una moglie, dei figli. Che importava se non c'erano più ormai? Cosa importava se erano vissute in un periodo lontano dal mio?
Ma un bambino non si pone di queste domande, i suoi pensieri non vanno oltre ciò che non si possa ritenere divertente, ci penserà da adulto a complicarsi la vita, in un futuro che gli arriverà addosso senza nemmeno accorgersene.
Quei volti per me non avevano storia, non avevano voci. Avevano solamente un nome su di una lapide e un cumulo di terra che sapevo non bisognava camminarci sopra, forse quello era il solo briciolo di rispetto che mi era permesso dalla mia coscienza di concedere loro.
Per lo più erano tutti vecchi, le donne sopratutto. Gli uomini coi soliti baffetti alla Chaplin, ignaro dal fatto che in realtà avevano tutt'altra storia.
Nessuno sorrideva. Sembrava che facessero apposta quelle foto per le proprie lapidi. Lapidi spoglie, grigie, polverose. Non tutte avevano dei fiori, alcune ne avevano di così rinsecchiti da sembrare essersi fossilizzati nei piccoli vasi. I lumicini senza più una fiammella ad illuminare la loro anima.
Volti dimenticati.
Un tempo non conoscevo nessuno di loro; oggi conosco quasi tutti i volti delle foto che riempiono le lapidi del cimitero. Non seppelliscono più i morti sulla terra spoglia, ora hanno tutti i loro loculi o cappella privata. È cambiato tutto, sembra che ci sia più colore, molti fiori freschi di ogni genere, più gente a visitare i loro cari venuti a mancare. Persino le fotografie sono a colori, non più come una volta.
Nei momenti in cui mi reco in questo posto, percorro i loculi come da piccolo, a guardare i volti così diversi da come li rappresentavano prima.
C'è sempre la curiosità e ogni tanto il divertimento nello scrutare quelle facce note, ma non per la loro espressione buffa o per altro, ma solamente per il ricordo di averli conosciuti, di averci parlato e a volte di averci pure scherzato.
Ecco chi sapeva scolpire la pietra con scalpello e martello, riusciva a creare asinelli, cavalli, caprette e altri vari oggetti perlopiù vasi. Sempre di buon umore a dare forma alla particolare pietra lavica.
Quest'altro invece che non mi ha ancora pagato un lavoretto che gli avevo svolto in passato, che sembra sbeffeggiarmi dietro il sorrisetto ironico stampato sotto quei suoi stupidi baffetti. Cosa non si fa al giorno d'oggi per non pagare un debito.
Cosa dire proseguendo per le varie file, di colui che riusciva sempre a trattenerti e a non farti andare via senza prima averti offerto un bicchiere di vino o la sua buonissima acquavite distillata nella sua piccola e accogliente cantina. Quella in cui ci metteva una punta di anice ne veniva fuori una vera chicca di nettare.
Qui riposa invece la signora da cui andavamo da piccoli io e le mie sorelle, a comprare una scodella di latte di mucca la mattina presto, la ricordo sempre come se fosse oggi, misurare col quartino il tanto di latte da versarci nel contenitore con coperchio, e le monetine in lire contate che le consegnavamo.
Tutti volti con una storia, con un passato di cui ne ho fatto parte anch'io se pur in una piccola parte.
Ma c'è un solo volto in particolare di cui mi importa più di tutti gli altri, con una storia in cui ci ho vissuto di persona ogni singolo giorno della mia vita.
Non vengo spesso a fargli visita se devo essere sincero. Molte volte non ci riesco, troppo doloroso, altre per motivi di cui mi vergogno troppo parlarne. Sono quei motivi che ti impediscono di piangerlo per non mostrarti troppo debole davanti ad altre persone. Motivi stupidi che ti fanno sentire più un verme che una persona degna di esserlo.
Il volto nella foto è sorridente, è un sorriso sincero che riesce a contagiarmi ogni volta che lo vedo. Sorrido a mia volta quando ripenso al momento in cui venne scattata la foto.
Trattenere le lacrime non è mai così semplice, ma lo faccio sempre. So che è doloroso e rimando il momento per piangerlo per un secondo tempo, per quando posso permettermi di essere da solo senza nessuno che mi giudichi o mi dia parole di conforto che reputo inutili e irritanti. Ma il più delle volte rimando ancora per non affrontare tale dolore, rimando e rimando trattenendomi tutto dentro. Forse piangerlo significa accettare il fatto che ormai non ci sia più.
E chi vuole accettarlo? Ma chi voglio prendere in giro? Non passa momento che non speri che non sia vero che non ci sia più.
Ogni tanto lo sogno la notte. Lo sogno come se non fosse mai successo, come se sia con noi da sempre. La solita routine di tutti i giorni. E provo quasi sempre rabbia al risveglio per le cose che non gli ho detto in quel preciso momento mentre magari lavoravamo entrambi nel vigneto, provo rabbia per non rendermi conto che è solo un sogno e di aver perso l'occasione di abbracciarlo, stringerlo forte a me e dirgli che gli voglio un mondo di bene, una rabbia che fa ancora più male.
I sogni peggiori sono quando riviviamo io e la mia famiglia la sua degenza, i suoi ultimi giorni. Sono diversi dalla realtà ma uguali nel contesto. A volte l'illusione è quella della sua ripresa, della sua guarigione, altre del solito esito che al risveglio mi lascia vuoto dentro.
Guardando il suo volto nella foto vicino a quelle del suo babbo e della sua mamma circondati dai fiori mi fa sentire piccolo e inutile.
Ma cosa ci fai in mezzo a tutta questa gente? Il tuo posto non è qui. Il tuo posto è con noi a casa, a lamentarti del cibo troppo poco cotto e duro da masticare per i tuoi poveri pochi denti sopravvissuti. A compilare il tuo solito cruciverba aspettando l'ora giusta per andare all'orto la mattina presto, facendoci sorbire ininterrottamente il notiziario, il meteo e l'oroscopo di canale cinque finché non lo impariamo a memoria. A portare le crocchette ai tuoi quindici gatti con ciascuno un nome buffo che solo tu riesci a ricordare e distinguere. Tornare stanco la sera e lasciare in giro sul pavimento della cucina i tuoi “cioccolatini” di terra, come li chiama mia madre, che si staccano dal tacco ormai senza suola delle tue scarpe. A raccontarci come hai passato la giornata e infine ad assopirti sulla poltrona davanti alla tv e russartela beatamente come solo tu sai fare.
Come si fa a riavere tutto questo?
Quando passerà?
Si dice che il tempo cancelli ogni cosa ma non è vero; il tempo non cancella un bel niente.
Avrei voluto andasse diversamente e non in un modo così crudele, così veloce. Forse l'avrei accettato serenamente, così va la vita in fondo.
Invece non posso far altro che arrabbiarmi con non so nemmeno io chi o cosa.
So solo che son già passati due anni e mi sembra solo ieri che ci parlavamo ancora.
Di lunedì c'è la messa che la mamma ha richiesto al prete di celebrare in tuo nome. Ci siamo solo io, la mamma e le solite otto vecchie che immancabilmente alle sette e un quarto del mattino occupano i loro soliti posti nei banchi, sparpagliate come se ognuna di loro avesse il proprio territorio da difendere. Mio fratello e le mie sorelle non sono venuti, hanno preferito passare le prime ore del mattino a seguitare a dormire prima di andare al lavoro; non sia mai dovesse scombussolarsi loro il metabolismo alzandosi una mezz'ora prima per una volta nella vita.
Non fa niente, forse le cose devono andare così, va bene lo stesso.
Le campane suonano alle sette precise, mi reco ad occupare un posto qualche minuto prima del secondo tocco, quello delle sette e un quarto, così da poterlo sentire dall'interno della chiesa, e devo dire che è una cosa abbastanza inquietante dato che l'intero edificio pare sul punto di crollare con quei boati mostruosi. Non conosco l'effetto di un terremoto ma da come tremano soffitto e pareti penso che ci avviciniamo abbastanza per rapportarlo a tale evento.
Si svolge pure una buffa scenetta durante l'attesa della messa. Il prete uscendo dalla sacrestia per accendere le candela dell'altare si mette a lottare con l'accendino da cucina a gas che sembra non voler fare il proprio dovere. Clic clic clic clic clic!
La perpetua vedendolo in difficoltà, si alza e aprendo un cassetto di un mobiletto di fianco all'altare ne tira fuori degli altri e comincia pure lei a provarli quasi tutti: clic clic clic clic clic, sembra di essere tornati ai giorni delle cicale ormai spompate dal continuo cicalio della lunga estate.
Nel mentre il prete riesce ad accendere le due candele e ritorna in sacrestia, mentre la perpetua non accorgendosi di niente continua la sua guerra personale con gli accendini. Alcune vecchie cercano di avvisarla che le candele sono accese, ma l'eco della chiesa praticamente vuota storpia le parole da sembrare l'assurdo ronzio di un gigantesco calabrone; che acustica! Finalmente trovato l'arnese che funziona, si volta per recarsi verso le candele e rendendosi conto del suo inutile intervento le cadono le braccia. La scenetta finisce in una risata generale di lei e delle donne presenti.
Stranamente però io non sorrido. Il motivo della mia presenza in chiesa non me lo permette, i miei pensieri sono altrove.
La messa è la solita di sempre, sempre uguale dall'inizio dei tempi. Lo so perché da piccolo sono stato un chierichetto e ormai ho imparato che la solita nenia ascoltata per un tempo infinito ti fa estraniare da tutto, la tua mente se ne va altrove, pensi a tutto tranne di stare in chiesa a sentire il prete che parla.
E questo non mi va.
Insomma, si tratta della messa di mio padre, non è una messa qualunque. Prete, che fai? Perché la prendi così alla leggera? Parliamo del mio babbo.
Voglio una messa solenne, diversa dalle altre, con tante belle parole e molte persone a ricordarlo per la brava persona che è stata. Non chiedo l'impossibile. Si merita di essere ricordato.
Una chiesa vuota, otto vecchie infreddolite, la solita solfa di messa di tutti i giorni e le mie lacrime che lottano per uscire. Questo è tutto quello che possiamo darti quindi?
Forse le cose devono andare davvero così, i morti restano morti e la memoria è tutto quello che resta di loro.
Forse deve bastare così.
Nella degenza chiamava spesso il suo babbo nonostante non ci fosse da un sacco di tempo, l'ho visto quanto era ancora presente la sua persona per lui. Non era un semplice ricordo, lui lo sentiva. Ne ero contento mentre lo osservavo tutte le volte che capitava, perché oltre a noi sentiva vicini pure i suoi genitori e questo alleviava un po' il mio dolore.
Ho visto questo in molte persone che ho conosciuto, vecchi, malati. Ciò che sentono lo prendiamo come un'aberrazione della vecchiaia o della malattia, sarà pure così, sarà vero ma che importa?
In certe circostanze la memoria conta poco, i ricordi diventano insignificanti. Viviamo i nostri particolari momenti nel presente, e li viviamo assieme ai cari più vicini a noi. Che ne siamo consci o meno, che siano allucinazioni o chissà cos'altro non importa, sono attimi che non si buttano via per niente al mondo. Si vivono serenamente e basta.
Rivedrò ancora il tuo volto sorridermi quando sarà arrivato il mio momento, sono sicuro che sarà così. Non mi chiederò se sarà realtà o illusione, non cercherò spiegazioni, e chi le vuole? Gioirò di quel momento e ti sorriderò a mia volta alla faccia delle aberrazioni e di tutto il resto.
Le cose andranno così.
E tutto tornerà a posto.





lunedì 3 novembre 2014

Le olive

Finalmente pure per quest'anno la raccolta delle olive è andata di buon esito.
Francamente sono rimasto davvero meravigliato nel constatare che queste olivette così rinsecchite quasi fino all'osso per via della siccità che a quanto pare non ha ancora intenzione di finire, siano riuscite a dare un olio davvero squisito, e cosa strana, piuttosto abbondante.
Sono contento, prevedevo che da un pessimo raccolto non ci avessi cavato quasi niente, ma mi son dovuto ricredere.
Evviva! Spero sia andata altrettanto bene pure a tutti gli altri.

domenica 15 giugno 2014

Mondo bizzarro

Sulla porta di una libreria:

"Dal lunedì al sabato si apre verso le 11 o mezzogiorno, ma talvolta anche alle 9 o alle 10. Certi giorni però, si apre alle 13. Si chiude alle 17,30 o alle 18. Certe volte il sabato si chiude alle 16,30 o alle 17, specialmente quando il mondo sembra senza speranza."

                                                                                      B. M.

domenica 27 aprile 2014

Finzione o realtà?

Pensa se dovessi dare di matto come Michael Douglas nel film “Un giorno di ordinaria follia”, se vedendomi davanti una specie di replica di hamburger invece di quella esposta sulla foto del locale, e avendo un'arma letale in mano; avrei anch'io la sua stessa reazione?
Mamma mia, meglio non pensarci e lasciar fare i matti a chi matto ci è diventato per davvero.
Questo è il bellissimo pacco di una marca famosissima che ci propinano i supermercati, un bellissimo “Ramo di Primavera” farcito con crema al cioccolato che solo a vederlo inonderei tutto il paese per l'acquolina che strariperebbe fuori dalla mia bocca.



Ma ahimè, la realtà purtroppo è un'altra, il “Ramo di Primavera” che ci troviamo dentro a vederlo risulta essere piuttosto un “Ramo Secco d'Autunno”.




Certo la brutta figura nel regalare una meraviglia del genere ad una persona cara non è cosa da poco, anche se ormai non ci facciamo più tanto caso. Sulla scatola c'è scritto che “le immagini riportate sulla confezione costituiscono un semplice suggerimento di presentazione”. Ma ti pare che questo sia un semplice suggerimento? A me sembra invece pura e semplice fantascienza. Quando compro un prodotto in scatola chiusa sulla confezione preferirei leggerci "questo è quello che ci trovi" e non "questo è quello che avremmo voluto metterci". Ma dai, ma ti pare possibile che riusciate veramente a creare una cosa bellissima come quella riportata sulla scatola? Ma stiamo scherzando? Ma che vi costa fare una foto a ciò che ne viene fuori nella realtà e metterci quella? Non è forse più onesto nei confronti di chi vuole comprare il suddetto Ramo? Ma perché prendere in giro il cliente poi? Non lo vede una volta aperto il pacco che non si tratta d'altro che di una spugna usata?
Ah già, me lo scordo sempre anche se per pochi secondi.
Vendere.
Il DENARO.
Ciò che ci ha reso così infami e spregevoli.
Che dire di più?
Chiedo scusa per l'inutile post.