lunedì 5 gennaio 2015

Volti

Un tempo non conoscevo nessuno di loro.
Volti sconosciuti a fissare perennemente l'obiettivo che hanno immortalato per sempre quegli sguardi da sembrare più smarriti che in posa.
Fotografie in bianco e nero, molte un po' sbiadite dalla continua luce battente del sole delle belle giornate che passano indisturbate, noncuranti di notizie o avvenimenti che all'esterno della struttura sembrano ravvivare il caotico mondo dei vivi.
Era un'epoca in cui non conoscevo nessuno di quei volti. Percorrevo incuriosito ed anche divertito le varie file di tombe osservando quei visi buffi un po' sprezzante come poteva essere un bambino, del dovuto rispetto che si doveva loro riservare, ignorando che pure loro un tempo avevano vissuto una vita, che erano stati qualcuno.
Persone.
Erano state persone come lo ero io. Persone che avevano avuto una famiglia; una moglie, dei figli. Che importava se non c'erano più ormai? Cosa importava se erano vissute in un periodo lontano dal mio?
Ma un bambino non si pone di queste domande, i suoi pensieri non vanno oltre ciò che non si possa ritenere divertente, ci penserà da adulto a complicarsi la vita, in un futuro che gli arriverà addosso senza nemmeno accorgersene.
Quei volti per me non avevano storia, non avevano voci. Avevano solamente un nome su di una lapide e un cumulo di terra che sapevo non bisognava camminarci sopra, forse quello era il solo briciolo di rispetto che mi era permesso dalla mia coscienza di concedere loro.
Per lo più erano tutti vecchi, le donne sopratutto. Gli uomini coi soliti baffetti alla Chaplin, ignaro dal fatto che in realtà avevano tutt'altra storia.
Nessuno sorrideva. Sembrava che facessero apposta quelle foto per le proprie lapidi. Lapidi spoglie, grigie, polverose. Non tutte avevano dei fiori, alcune ne avevano di così rinsecchiti da sembrare essersi fossilizzati nei piccoli vasi. I lumicini senza più una fiammella ad illuminare la loro anima.
Volti dimenticati.
Un tempo non conoscevo nessuno di loro; oggi conosco quasi tutti i volti delle foto che riempiono le lapidi del cimitero. Non seppelliscono più i morti sulla terra spoglia, ora hanno tutti i loro loculi o cappella privata. È cambiato tutto, sembra che ci sia più colore, molti fiori freschi di ogni genere, più gente a visitare i loro cari venuti a mancare. Persino le fotografie sono a colori, non più come una volta.
Nei momenti in cui mi reco in questo posto, percorro i loculi come da piccolo, a guardare i volti così diversi da come li rappresentavano prima.
C'è sempre la curiosità e ogni tanto il divertimento nello scrutare quelle facce note, ma non per la loro espressione buffa o per altro, ma solamente per il ricordo di averli conosciuti, di averci parlato e a volte di averci pure scherzato.
Ecco chi sapeva scolpire la pietra con scalpello e martello, riusciva a creare asinelli, cavalli, caprette e altri vari oggetti perlopiù vasi. Sempre di buon umore a dare forma alla particolare pietra lavica.
Quest'altro invece che non mi ha ancora pagato un lavoretto che gli avevo svolto in passato, che sembra sbeffeggiarmi dietro il sorrisetto ironico stampato sotto quei suoi stupidi baffetti. Cosa non si fa al giorno d'oggi per non pagare un debito.
Cosa dire proseguendo per le varie file, di colui che riusciva sempre a trattenerti e a non farti andare via senza prima averti offerto un bicchiere di vino o la sua buonissima acquavite distillata nella sua piccola e accogliente cantina. Quella in cui ci metteva una punta di anice ne veniva fuori una vera chicca di nettare.
Qui riposa invece la signora da cui andavamo da piccoli io e le mie sorelle, a comprare una scodella di latte di mucca la mattina presto, la ricordo sempre come se fosse oggi, misurare col quartino il tanto di latte da versarci nel contenitore con coperchio, e le monetine in lire contate che le consegnavamo.
Tutti volti con una storia, con un passato di cui ne ho fatto parte anch'io se pur in una piccola parte.
Ma c'è un solo volto in particolare di cui mi importa più di tutti gli altri, con una storia in cui ci ho vissuto di persona ogni singolo giorno della mia vita.
Non vengo spesso a fargli visita se devo essere sincero. Molte volte non ci riesco, troppo doloroso, altre per motivi di cui mi vergogno troppo parlarne. Sono quei motivi che ti impediscono di piangerlo per non mostrarti troppo debole davanti ad altre persone. Motivi stupidi che ti fanno sentire più un verme che una persona degna di esserlo.
Il volto nella foto è sorridente, è un sorriso sincero che riesce a contagiarmi ogni volta che lo vedo. Sorrido a mia volta quando ripenso al momento in cui venne scattata la foto.
Trattenere le lacrime non è mai così semplice, ma lo faccio sempre. So che è doloroso e rimando il momento per piangerlo per un secondo tempo, per quando posso permettermi di essere da solo senza nessuno che mi giudichi o mi dia parole di conforto che reputo inutili e irritanti. Ma il più delle volte rimando ancora per non affrontare tale dolore, rimando e rimando trattenendomi tutto dentro. Forse piangerlo significa accettare il fatto che ormai non ci sia più.
E chi vuole accettarlo? Ma chi voglio prendere in giro? Non passa momento che non speri che non sia vero che non ci sia più.
Ogni tanto lo sogno la notte. Lo sogno come se non fosse mai successo, come se sia con noi da sempre. La solita routine di tutti i giorni. E provo quasi sempre rabbia al risveglio per le cose che non gli ho detto in quel preciso momento mentre magari lavoravamo entrambi nel vigneto, provo rabbia per non rendermi conto che è solo un sogno e di aver perso l'occasione di abbracciarlo, stringerlo forte a me e dirgli che gli voglio un mondo di bene, una rabbia che fa ancora più male.
I sogni peggiori sono quando riviviamo io e la mia famiglia la sua degenza, i suoi ultimi giorni. Sono diversi dalla realtà ma uguali nel contesto. A volte l'illusione è quella della sua ripresa, della sua guarigione, altre del solito esito che al risveglio mi lascia vuoto dentro.
Guardando il suo volto nella foto vicino a quelle del suo babbo e della sua mamma circondati dai fiori mi fa sentire piccolo e inutile.
Ma cosa ci fai in mezzo a tutta questa gente? Il tuo posto non è qui. Il tuo posto è con noi a casa, a lamentarti del cibo troppo poco cotto e duro da masticare per i tuoi poveri pochi denti sopravvissuti. A compilare il tuo solito cruciverba aspettando l'ora giusta per andare all'orto la mattina presto, facendoci sorbire ininterrottamente il notiziario, il meteo e l'oroscopo di canale cinque finché non lo impariamo a memoria. A portare le crocchette ai tuoi quindici gatti con ciascuno un nome buffo che solo tu riesci a ricordare e distinguere. Tornare stanco la sera e lasciare in giro sul pavimento della cucina i tuoi “cioccolatini” di terra, come li chiama mia madre, che si staccano dal tacco ormai senza suola delle tue scarpe. A raccontarci come hai passato la giornata e infine ad assopirti sulla poltrona davanti alla tv e russartela beatamente come solo tu sai fare.
Come si fa a riavere tutto questo?
Quando passerà?
Si dice che il tempo cancelli ogni cosa ma non è vero; il tempo non cancella un bel niente.
Avrei voluto andasse diversamente e non in un modo così crudele, così veloce. Forse l'avrei accettato serenamente, così va la vita in fondo.
Invece non posso far altro che arrabbiarmi con non so nemmeno io chi o cosa.
So solo che son già passati due anni e mi sembra solo ieri che ci parlavamo ancora.
Di lunedì c'è la messa che la mamma ha richiesto al prete di celebrare in tuo nome. Ci siamo solo io, la mamma e le solite otto vecchie che immancabilmente alle sette e un quarto del mattino occupano i loro soliti posti nei banchi, sparpagliate come se ognuna di loro avesse il proprio territorio da difendere. Mio fratello e le mie sorelle non sono venuti, hanno preferito passare le prime ore del mattino a seguitare a dormire prima di andare al lavoro; non sia mai dovesse scombussolarsi loro il metabolismo alzandosi una mezz'ora prima per una volta nella vita.
Non fa niente, forse le cose devono andare così, va bene lo stesso.
Le campane suonano alle sette precise, mi reco ad occupare un posto qualche minuto prima del secondo tocco, quello delle sette e un quarto, così da poterlo sentire dall'interno della chiesa, e devo dire che è una cosa abbastanza inquietante dato che l'intero edificio pare sul punto di crollare con quei boati mostruosi. Non conosco l'effetto di un terremoto ma da come tremano soffitto e pareti penso che ci avviciniamo abbastanza per rapportarlo a tale evento.
Si svolge pure una buffa scenetta durante l'attesa della messa. Il prete uscendo dalla sacrestia per accendere le candela dell'altare si mette a lottare con l'accendino da cucina a gas che sembra non voler fare il proprio dovere. Clic clic clic clic clic!
La perpetua vedendolo in difficoltà, si alza e aprendo un cassetto di un mobiletto di fianco all'altare ne tira fuori degli altri e comincia pure lei a provarli quasi tutti: clic clic clic clic clic, sembra di essere tornati ai giorni delle cicale ormai spompate dal continuo cicalio della lunga estate.
Nel mentre il prete riesce ad accendere le due candele e ritorna in sacrestia, mentre la perpetua non accorgendosi di niente continua la sua guerra personale con gli accendini. Alcune vecchie cercano di avvisarla che le candele sono accese, ma l'eco della chiesa praticamente vuota storpia le parole da sembrare l'assurdo ronzio di un gigantesco calabrone; che acustica! Finalmente trovato l'arnese che funziona, si volta per recarsi verso le candele e rendendosi conto del suo inutile intervento le cadono le braccia. La scenetta finisce in una risata generale di lei e delle donne presenti.
Stranamente però io non sorrido. Il motivo della mia presenza in chiesa non me lo permette, i miei pensieri sono altrove.
La messa è la solita di sempre, sempre uguale dall'inizio dei tempi. Lo so perché da piccolo sono stato un chierichetto e ormai ho imparato che la solita nenia ascoltata per un tempo infinito ti fa estraniare da tutto, la tua mente se ne va altrove, pensi a tutto tranne di stare in chiesa a sentire il prete che parla.
E questo non mi va.
Insomma, si tratta della messa di mio padre, non è una messa qualunque. Prete, che fai? Perché la prendi così alla leggera? Parliamo del mio babbo.
Voglio una messa solenne, diversa dalle altre, con tante belle parole e molte persone a ricordarlo per la brava persona che è stata. Non chiedo l'impossibile. Si merita di essere ricordato.
Una chiesa vuota, otto vecchie infreddolite, la solita solfa di messa di tutti i giorni e le mie lacrime che lottano per uscire. Questo è tutto quello che possiamo darti quindi?
Forse le cose devono andare davvero così, i morti restano morti e la memoria è tutto quello che resta di loro.
Forse deve bastare così.
Nella degenza chiamava spesso il suo babbo nonostante non ci fosse da un sacco di tempo, l'ho visto quanto era ancora presente la sua persona per lui. Non era un semplice ricordo, lui lo sentiva. Ne ero contento mentre lo osservavo tutte le volte che capitava, perché oltre a noi sentiva vicini pure i suoi genitori e questo alleviava un po' il mio dolore.
Ho visto questo in molte persone che ho conosciuto, vecchi, malati. Ciò che sentono lo prendiamo come un'aberrazione della vecchiaia o della malattia, sarà pure così, sarà vero ma che importa?
In certe circostanze la memoria conta poco, i ricordi diventano insignificanti. Viviamo i nostri particolari momenti nel presente, e li viviamo assieme ai cari più vicini a noi. Che ne siamo consci o meno, che siano allucinazioni o chissà cos'altro non importa, sono attimi che non si buttano via per niente al mondo. Si vivono serenamente e basta.
Rivedrò ancora il tuo volto sorridermi quando sarà arrivato il mio momento, sono sicuro che sarà così. Non mi chiederò se sarà realtà o illusione, non cercherò spiegazioni, e chi le vuole? Gioirò di quel momento e ti sorriderò a mia volta alla faccia delle aberrazioni e di tutto il resto.
Le cose andranno così.
E tutto tornerà a posto.