Un tempo non conoscevo nessuno di loro.
Volti sconosciuti a fissare
perennemente l'obiettivo che hanno immortalato per sempre quegli
sguardi da sembrare più smarriti che in posa.
Fotografie in bianco e nero, molte un
po' sbiadite dalla continua luce battente del sole delle belle
giornate che passano indisturbate, noncuranti di notizie o
avvenimenti che all'esterno della struttura sembrano ravvivare il
caotico mondo dei vivi.
Era un'epoca in cui non conoscevo
nessuno di quei volti. Percorrevo incuriosito ed anche divertito le
varie file di tombe osservando quei visi buffi un po' sprezzante come
poteva essere un bambino, del dovuto rispetto che si doveva loro
riservare, ignorando che pure loro un tempo avevano vissuto una vita,
che erano stati qualcuno.
Persone.
Erano state persone come lo ero io.
Persone che avevano avuto una famiglia; una moglie, dei figli. Che
importava se non c'erano più ormai? Cosa importava se erano vissute
in un periodo lontano dal mio?
Ma un bambino non si pone di queste
domande, i suoi pensieri non vanno oltre ciò che non si possa
ritenere divertente, ci penserà da adulto a complicarsi la vita, in
un futuro che gli arriverà addosso senza nemmeno accorgersene.
Quei volti per me non avevano storia,
non avevano voci. Avevano solamente un nome su di una lapide e un
cumulo di terra che sapevo non bisognava camminarci sopra, forse
quello era il solo briciolo di rispetto che mi era permesso dalla mia
coscienza di concedere loro.
Per lo più erano tutti vecchi, le
donne sopratutto. Gli uomini coi soliti baffetti alla Chaplin, ignaro
dal fatto che in realtà avevano tutt'altra storia.
Nessuno sorrideva. Sembrava che
facessero apposta quelle foto per le proprie lapidi. Lapidi spoglie,
grigie, polverose. Non tutte avevano dei fiori, alcune ne avevano di
così rinsecchiti da sembrare essersi fossilizzati nei piccoli vasi.
I lumicini senza più una fiammella ad illuminare la loro anima.
Volti dimenticati.
Un tempo non conoscevo nessuno di loro;
oggi conosco quasi tutti i volti delle foto che riempiono le lapidi
del cimitero. Non seppelliscono più i morti sulla terra spoglia, ora
hanno tutti i loro loculi o cappella privata. È cambiato tutto,
sembra che ci sia più colore, molti fiori freschi di ogni genere,
più gente a visitare i loro cari venuti a mancare. Persino le
fotografie sono a colori, non più come una volta.
Nei momenti in cui mi reco in questo
posto, percorro i loculi come da piccolo, a guardare i volti così
diversi da come li rappresentavano prima.
C'è sempre la curiosità e ogni tanto
il divertimento nello scrutare quelle facce note, ma non per la loro
espressione buffa o per altro, ma solamente per il ricordo di averli
conosciuti, di averci parlato e a volte di averci pure scherzato.
Ecco chi sapeva scolpire la pietra con
scalpello e martello, riusciva a creare asinelli, cavalli, caprette e
altri vari oggetti perlopiù vasi. Sempre di buon umore a dare forma
alla particolare pietra lavica.
Quest'altro invece che non mi ha ancora
pagato un lavoretto che gli avevo svolto in passato, che sembra
sbeffeggiarmi dietro il sorrisetto ironico stampato sotto quei suoi
stupidi baffetti. Cosa non si fa al giorno d'oggi per non pagare un
debito.
Cosa dire proseguendo per le varie
file, di colui che riusciva sempre a trattenerti e a non farti andare
via senza prima averti offerto un bicchiere di vino o la sua
buonissima acquavite distillata nella sua piccola e accogliente
cantina. Quella in cui ci metteva una punta di anice ne veniva fuori
una vera chicca di nettare.
Qui riposa invece la signora da cui
andavamo da piccoli io e le mie sorelle, a comprare una scodella di
latte di mucca la mattina presto, la ricordo sempre come se fosse
oggi, misurare col quartino il tanto di latte da versarci nel
contenitore con coperchio, e le monetine in lire contate che le
consegnavamo.
Tutti volti con una storia, con un
passato di cui ne ho fatto parte anch'io se pur in una piccola parte.
Ma c'è un solo volto in particolare di
cui mi importa più di tutti gli altri, con una storia in cui ci ho
vissuto di persona ogni singolo giorno della mia vita.
Non vengo spesso a fargli visita se
devo essere sincero. Molte volte non ci riesco, troppo doloroso,
altre per motivi di cui mi vergogno troppo parlarne. Sono quei motivi
che ti impediscono di piangerlo per non mostrarti troppo debole
davanti ad altre persone. Motivi stupidi che ti fanno sentire più un
verme che una persona degna di esserlo.
Il volto nella foto è sorridente, è
un sorriso sincero che riesce a contagiarmi ogni volta che lo vedo.
Sorrido a mia volta quando ripenso al momento in cui venne scattata
la foto.
Trattenere le lacrime non è mai così
semplice, ma lo faccio sempre. So che è doloroso e rimando il
momento per piangerlo per un secondo tempo, per quando posso
permettermi di essere da solo senza nessuno che mi giudichi o mi dia
parole di conforto che reputo inutili e irritanti. Ma il più delle
volte rimando ancora per non affrontare tale dolore, rimando e
rimando trattenendomi tutto dentro. Forse piangerlo significa
accettare il fatto che ormai non ci sia più.
E chi vuole accettarlo? Ma chi voglio
prendere in giro? Non passa momento che non speri che non sia vero
che non ci sia più.
Ogni tanto lo sogno la notte. Lo sogno
come se non fosse mai successo, come se sia con noi da sempre. La
solita routine di tutti i giorni. E provo quasi sempre rabbia al
risveglio per le cose che non gli ho detto in quel preciso momento
mentre magari lavoravamo entrambi nel vigneto, provo rabbia per non
rendermi conto che è solo un sogno e di aver perso l'occasione di
abbracciarlo, stringerlo forte a me e dirgli che gli voglio un mondo
di bene, una rabbia che fa ancora più male.
I sogni peggiori sono quando riviviamo
io e la mia famiglia la sua degenza, i suoi ultimi giorni. Sono
diversi dalla realtà ma uguali nel contesto. A volte l'illusione è
quella della sua ripresa, della sua guarigione, altre del solito
esito che al risveglio mi lascia vuoto dentro.
Guardando il suo volto nella foto
vicino a quelle del suo babbo e della sua mamma circondati dai fiori
mi fa sentire piccolo e inutile.
Ma cosa ci fai in mezzo a tutta questa
gente? Il tuo posto non è qui. Il tuo posto è con noi a casa, a
lamentarti del cibo troppo poco cotto e duro da masticare per i tuoi
poveri pochi denti sopravvissuti. A compilare il tuo solito
cruciverba aspettando l'ora giusta per andare all'orto la mattina
presto, facendoci sorbire ininterrottamente il notiziario, il meteo e
l'oroscopo di canale cinque finché non lo impariamo a memoria. A
portare le crocchette ai tuoi quindici gatti con ciascuno un nome
buffo che solo tu riesci a ricordare e distinguere. Tornare stanco la
sera e lasciare in giro sul pavimento della cucina i tuoi
“cioccolatini” di terra, come li chiama mia madre, che si
staccano dal tacco ormai senza suola delle tue scarpe. A raccontarci
come hai passato la giornata e infine ad assopirti sulla poltrona
davanti alla tv e russartela beatamente come solo tu sai fare.
Come si fa a riavere tutto questo?
Quando passerà?
Si dice che il tempo cancelli ogni cosa
ma non è vero; il tempo non cancella un bel niente.
Avrei voluto andasse diversamente e non
in un modo così crudele, così veloce. Forse l'avrei accettato
serenamente, così va la vita in fondo.
Invece non posso far altro che
arrabbiarmi con non so nemmeno io chi o cosa.
So solo che son già passati due anni e
mi sembra solo ieri che ci parlavamo ancora.
Di lunedì c'è la messa che la mamma
ha richiesto al prete di celebrare in tuo nome. Ci siamo solo io, la
mamma e le solite otto vecchie che immancabilmente alle sette e un
quarto del mattino occupano i loro soliti posti nei banchi,
sparpagliate come se ognuna di loro avesse il proprio territorio da
difendere. Mio fratello e le mie sorelle non sono venuti, hanno
preferito passare le prime ore del mattino a seguitare a dormire
prima di andare al lavoro; non sia mai dovesse scombussolarsi loro il
metabolismo alzandosi una mezz'ora prima per una volta nella vita.
Non fa niente, forse le cose devono
andare così, va bene lo stesso.
Le campane suonano alle sette precise,
mi reco ad occupare un posto qualche minuto prima del secondo tocco,
quello delle sette e un quarto, così da poterlo sentire dall'interno
della chiesa, e devo dire che è una cosa abbastanza inquietante dato
che l'intero edificio pare sul punto di crollare con quei boati
mostruosi. Non conosco l'effetto di un terremoto ma da come tremano
soffitto e pareti penso che ci avviciniamo abbastanza per rapportarlo
a tale evento.
Si svolge pure una buffa scenetta
durante l'attesa della messa. Il prete uscendo dalla sacrestia per
accendere le candela dell'altare si mette a lottare con l'accendino
da cucina a gas che sembra non voler fare il proprio dovere. Clic
clic clic clic clic!
La perpetua vedendolo in difficoltà,
si alza e aprendo un cassetto di un mobiletto di fianco all'altare ne
tira fuori degli altri e comincia pure lei a provarli quasi tutti:
clic clic clic clic clic, sembra di essere tornati ai giorni delle
cicale ormai spompate dal continuo cicalio della lunga estate.
Nel mentre il prete riesce ad accendere
le due candele e ritorna in sacrestia, mentre la perpetua non
accorgendosi di niente continua la sua guerra personale con gli
accendini. Alcune vecchie cercano di avvisarla che le candele sono
accese, ma l'eco della chiesa praticamente vuota storpia le parole da
sembrare l'assurdo ronzio di un gigantesco calabrone; che acustica!
Finalmente trovato l'arnese che funziona, si volta per recarsi verso
le candele e rendendosi conto del suo inutile intervento le cadono le
braccia. La scenetta finisce in una risata generale di lei e delle
donne presenti.
Stranamente però io non sorrido. Il
motivo della mia presenza in chiesa non me lo permette, i miei
pensieri sono altrove.
La messa è la solita di sempre, sempre
uguale dall'inizio dei tempi. Lo so perché da piccolo sono stato un
chierichetto e ormai ho imparato che la solita nenia ascoltata per un
tempo infinito ti fa estraniare da tutto, la tua mente se ne va
altrove, pensi a tutto tranne di stare in chiesa a sentire il prete
che parla.
E questo non mi va.
Insomma, si tratta della messa di mio
padre, non è una messa qualunque. Prete, che fai? Perché la prendi
così alla leggera? Parliamo del mio babbo.
Voglio una messa solenne, diversa dalle
altre, con tante belle parole e molte persone a ricordarlo per la
brava persona che è stata. Non chiedo l'impossibile. Si merita di
essere ricordato.
Una chiesa vuota, otto vecchie
infreddolite, la solita solfa di messa di tutti i giorni e le mie
lacrime che lottano per uscire. Questo è tutto quello che possiamo
darti quindi?
Forse le cose devono andare davvero
così, i morti restano morti e la memoria è tutto quello che resta
di loro.
Forse deve bastare così.
Nella degenza chiamava spesso il suo
babbo nonostante non ci fosse da un sacco di tempo, l'ho visto quanto
era ancora presente la sua persona per lui. Non era un semplice
ricordo, lui lo sentiva. Ne ero contento mentre lo osservavo tutte le
volte che capitava, perché oltre a noi sentiva vicini pure i suoi
genitori e questo alleviava un po' il mio dolore.
Ho visto questo in molte persone che ho
conosciuto, vecchi, malati. Ciò che sentono lo prendiamo come
un'aberrazione della vecchiaia o della malattia, sarà pure così,
sarà vero ma che importa?
In certe circostanze la memoria conta
poco, i ricordi diventano insignificanti. Viviamo i nostri
particolari momenti nel presente, e li viviamo assieme ai cari più
vicini a noi. Che ne siamo consci o meno, che siano allucinazioni o
chissà cos'altro non importa, sono attimi che non si buttano via per
niente al mondo. Si vivono serenamente e basta.
Rivedrò ancora il tuo volto sorridermi
quando sarà arrivato il mio momento, sono sicuro che sarà così.
Non mi chiederò se sarà realtà o illusione, non cercherò
spiegazioni, e chi le vuole? Gioirò di quel momento e ti sorriderò
a mia volta alla faccia delle aberrazioni e di tutto il resto.
Le cose andranno così.
E tutto tornerà a posto.